Il licenziamento «ad nutum».
«Ad nutum» o «ad arbitrium» o «pro imperio», ovvero di ciò che sostanzialmente «diverge» da quanto la dottrina costituzionale individua in qualità di «etimo della dignità».
Tale «etimo della dignità» diviene espresso assunto contemplato dall’articolo 41 della Costituzione, laddove tale articolo, si pronuncia in favore di un’attività economica privata, che non leda (o «rechi danno») alla sicurezza, alla libertà e alla dignità della persona (o «dignità umana»).
La «finalità» della sicurezza, della libertà e della dignità della persona, secondo il comma 2 del medesimo articolo, si può asserire che siano implicitamente coordinabili tra loro, quanto espressamente valorizzabili, in ordine ad un espressa cogenza normativa di indirizzo e coordinamento, nei riguardi di una irrinunciabile concretizzazione orientata alla finalità «sociale».
Si parla di licenziamento «ad nutum» o acausale, allorquando, viene esercitato dal datore di lavoro, un diritto potestativo di recesso, attraverso il quale si evidenzia una manifestata volontà unilaterale «libera nella forma e priva di spiegazione giustificativa».
Come noto, la Corte di Cassazione e le Sezioni Unite della medesima, si sono formalmente e sostanzialmente espresse in argomento, rispettivamente attraverso le sentenze nn. 1091 del 3 febbraio 1994 e 11633 del 2 agosto 2002.
Tale suddette pronunce, hanno contribuito a dare valore e forza di legge a una fattibile e concludente esclusione, in tale azione negoziale di recesso, a riguardo dell’«interesse antagonista» del lavoratore, o di altri putativi e diversi interessi da quello inteso dal datore di lavoro nell’«actio ad nutum».
La dottrina pone altresì in rilievo in materia, l’altrettanto importante e necessaria pronuncia n. 7359 dell’11 aprile 2005 a cura della stessa Cassazione e relativamente alla «ritualità del licenziamento verbale nei rapporti recidibili ad nutum».
Inoltre, come noto, laddove il datore di lavoro, intenda imporre altresì al suo lavoratore, l’esonero del preavviso nell’esercizio arbitrario e unilaterale dell’«actio ad nutum», deve debitamente attenersi alle disposizioni di legge previste dall’articolo 7 della contrattazione collettiva in materia di lavoro, ovvero alla legge n. 300/1970.
In tale caso, rileva la dottrina, deve prodursi una supposta «giusta causa», non legata a quanto tecnicamente inteso normativamente internamente al negozio unilaterale di recesso.
Tale dottrina inoltre, rende noto debba evidenziarsi una «giusta causa» quale presupposto di fatto finalizzato allo scopo medesimo, mancando il quale non possa sussistere invero l’invalidità stessa del licenziamento.
Ciò altresì ai sensi di una ulteriore sentenza della Cassazione, ovvero la n. 2596 del 4 marzo 1993.
Il D.L. n. 18/2020
Di recente, si è dibattuto intorno alla necessità di rendere giuridicamente nota una ipotetica illegittimità costituzionale rilevante dal contenuto legislativo caratterizzante la materia dell’articolo 46 del D.L. del 17 marzo 2020, n. 18.
Tale «decreto» si coordina alla legge di conversione del 24 aprile 2020, n. 27.
Sostanzialmente, trattasi di un intervento di carattere emergenziale recante le «Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19.».
La materia concernente l’articolo 46 del citato testo di legge, solleva materiali questioni di legittimità giuridica quanto di sacrificata preminenza costituzionale, a riguardo delle prescritte «Disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo.».
Le disposizioni in oggetto intervengono in tema di sospensione o postdatazione con inerenza a procedure pendenti di licenziamento «avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020», laddove dunque si era in corso di accertata pandemia, e ad nutum, oltre che per intervenuta giustificata causa.
Tali disposizioni agiscono ad esclusiva tutela della posizione salariale del personale dipendente, legittimando in tal senso e ben conseguenzialmente, un vulnus giuridico ai danni di coloro i quali sono legittimati altresì a tutele di tale carattere e argomento, anche se in qualità di quadri o dirigenti (ovvero appartenenti alla c.d. dirigenza apicale), beneficianti anch’essi di trattamenti di natura contributiva e salariale.
Tale articolo giustifica il suo articolato legislativo appellandosi in fatto e in diritto all’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante norme sui licenziamenti individuali, modificata successivamente con legge 4 novembre 2010, n. 183 ovvero con il c.d. Collegato Lavoro.
L’articolo 5, del Collegato Lavoro, interviene inoltre sostenendo che «L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro».
La leicità giuridica della disposizione di legge qualificante l’articolo 46 del D.L. del 17 marzo 2020, n. 18, caratterizza certamente quanto ulteriormente, il negozio unilaterale di recesso ad nutum e per giusta causa, e in misura favorevole al datore di lavoro; peraltro segnatamente a rapporti di lavoro non a termine, bensì a tempo indeterminato, come dottrina autorevolmente sostiene.
Tale medesima leicità si fa conforme peraltro alle citate sentenze della Cassazione Civile in materia, ovvero, alla n. 1091 del 3 febbraio 1994, n. 11633 del 2 agosto 2002, n. 7359 dell’11 aprile 2005, n. 2596 del 4 marzo 1993 quanto agli articoli 7 e 18 dello Statuto dei lavoratori.
Una leicità che però si palesa attraverso chiari profili di incostituzionalità ai sensi dei seguenti articoli della Costituzione, ovvero:
- Articolo 2, in tema di riconoscimento e garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo quanto nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità;
- Articolo 3, in tema di riconoscimento della pari dignità sociale quanto dell’eguaglianza dinanzi alla legge senza discriminazioni determinate da genere, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali; con inderogabile dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che di fatto limitino la libertà, l’eguaglianza dei suoi cittadini, o ne impediscano il pieno sviluppo umano, o la piena partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese;
- Articolo 4, il quale sostiene di riconoscere a tutti i cittadini il diritto al lavoro promuovendone le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Quali le possibili tutele nel caso di specie?
I meccanismi di tutela azionabili, agiscono essenzialmente sulla sostanza regolamentare del procedimento sanzionatorio di licenziamento, c.d. per «giusta causa».
Un’azione procedurale che secondo la dottrina giuslavoristica, e conformemente a quanto disposto dalla Suprema Corte di Cassazione nella sua pronuncia n. 4823 dell’1 giugno 1987, brandisce un disciplinare di licenziamento di natura «formale», ovvero che segue pedissequamente quanto disposto dal codice disciplinare; oppure di natura prettamente «ontologica», ovvero che faccia riferimento a qualsiasi inadempimento di natura colposa anche se non previsto dal codice disciplinare.
La «giusta causa» in termini generali, quanto di giuridica prossimità al recesso ad nutum, come noto, è sanzione contrattuale e disciplinare da impiegarsi senza discostarsi da una lecita proporzione di legittimità da fare sussistere fra fatto contestato e sanzione (o licenziamento) applicata.
La «giusta causa» si pone oltremodo nella prospettiva del disciplinare normativo previsto dall’articolo 2119 del c.c. .
Una problematica così complessa e di certo non ancora pienamente esaustiva, viene preservata dalla novellata disciplina dei licenziamenti caratterizzante il D.Lgs. n. 23/2015 o Jobs Act o «contratto di lavoro a tutele crescenti», quanto attraverso il D.Lgs. n. 185 del 24 settembre 2016 e dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 30 novembre 1982.
A sanare poi, la paventata incostituzionalità dell’articolo 46 D.L. del 17 marzo 2020, n. 18, ai sensi degli articoli 2, 3 e 4 della Costituzione, interviene un ulteriore argine giuridico da supporsi e costituirsi grazie al percorribile c.d. parametro interposto, giuridicamente suggellato in dottrina, segnatamente ai citabili articoli 76, e 117 comma 1 della Costituzione, quanto all’articolo 3 del CDFUE.
L’intervento dell’articolo 76, interviene nel porsi quale disciplinare di determinazione e della funzione legislativa in relazione a tempi e determinati oggetti descrittivi da contemplarsi, in particolare modo nell’ambito di interventi di natura emergenziale quali quelli d’inerenza all’emergenza epidemiologica da Covid-1.
Quanto all’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, viene a essere tutelata la parità sociale e individuale dei lavoratori al di là di ogni possibile discriminazione segnatamente alla difesa e al riconoscimento del «Diritto all’integrità della persona».
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